mercoledì 3 novembre 2010

UNA PORTA NEL CIELO - Roberto Baggio

UN'AUTOBIOGRAFIA

Interviste di Enrico Mattesini
Testi a cura di Enrico Mattesini e Andrea Scanzi
Coordinamento e contributi di Ivan Zazzaroni
Appendice statistica a cura di Elio Barraco

A veder giocare Baggio ci si sente bambini...
Baggio è l'impossibile che diventa possibile,
una nevicata che scende giù
da una porta aperta nel cielo
[Lucio Dalla]


<<In questi ultimi anni nessuno ha offerto tanto buon calcio e tanti argomenti di discussione>>. 


Le parole, di Eduardo Galeano, sono dedicate a Roberto Baggio. Per molti, compreso un recente sondaggio internet nel mondo, il terzo giocatore di tutti i tempi, dopo Pelé e Maradona. 

Una Porta Nel Cielo” è la sua autobiografia. Il libro delle risposte, delle confidenze, degli sfoghi gentili. Il libro delle scoperte. La scoperta di un talento purissimo fin dalle giovanili; di un uomo che, ancor prima di approdare in serie A, si vede esplodere un ginocchio. Ginocchio che lo costringerà per tutta la carriera professionistica a giocare «con una gamba e mezzo».

“Una Porta Nel Cielo” è un’autobiografia, non un libro celebrativo. Qui, Baggio affronta tutti quei momenti di cui ancora si discute: l’addio a Firenze, il tormentato rapporto con la Juve e Torino, il rigore sbagliato a Pasadena, le troppe panchine, gli allenatori-nemici, le tante maglie cambiate, l’accusa di essere mercenario, di non essere un leader, e quella sua condizione di campione «troppo bravo per potersi permettere di giocare». Un «10» la cui unica colpa è l’arte inimitabile, incompatibile con un calcio ormai dominato dai kapò degli schemi. Un «10» che non nasconde il suo sogno per nulla proibito, «impossibile» come lo era quello concepito nell’anno di Bologna: partecipare, da capitano del Brescia, a un altro Mondiale. Il quarto. In Giappone. La terra della spiritualità. La terra del suo maestro spirituale, Daisaku Ikeda, premio delle Nazioni Unite per la Pace 1983, qui autore di una affettuosa prefazione.

“Una Porta Nel Cielo”, inevitabilmente, non è soltanto il racconto dettagliato – attraverso la forma del libro-intervista – di una carriera unica, ma è anche, e soprattutto, l’istantanea in movimento della vita di un uomo che «all’anagrafe ha 34 anni, ma nella testa e nel cuore molti di più». Un uomo che al calcio ha sempre anteposto due valori irrinunciabili: la famiglia e la fede. Una fede di cui Roberto non ha mai parlato volentieri, perché ritenuta cosa troppo intima.

«Gli avversari lo aggrediscono, lo mordono, colpiscono duro.
Buddha non gli evita i calci ma lo aiuta a sopportarli
– scrive ancora Galeano. – 
Dalla sua infinita serenità, lo aiuta anche a scoprire il silenzio,
al di là del frastuono delle ovazioni e dei fischi».

Baggio è sempre andato oltre. Nel buddhismo ha trovato il sentiero per andare oltre. Baggio ringraziava il pubblico fedele, si difendeva con stile e stiletto dagli attacchi degli invidiosi, ma di fatto era oltre. Altrove. Raccolto in meditazione davanti all’oggetto di culto: il Gohonzon. Nella sua casa di Caldogno, protetto dal «frastuono». Lontano dalla mondanità, vicino agli affetti. Nella sua Argentina, mitica e selvaggia. A caccia, non per sparare, ma per attendere. Diviso in capitoli tematici, il testo si apre con un capitolo folgorante sulla fede buddhista di Roberto Baggio. Ed è proprio attraverso la sua spiritualità che è possibile comprendere fino in fondo la personalità complessa del campione sui generis, in campo come fuori, che ha sempre rifuggito la banalità e la necessità di apparire a tutti i costi, preferendo una vita normale, cullato e protetto dai pochi, veri affetti: i genitori, i 7 fratelli, l’inseparabile moglie Andreina conosciuta a 15 anni, i figli Valentina e Mattia, gli amici.


Roberto Baggio non è mai stato un uomo normale, anche se ha sempre fatto di tutto per vivere con semplicità, diversamente da molti suoi colleghi. Campione dal talento accecante fin dalla tenera età, quando già a 5 anni disputava partite immaginarie e memorabili nel corridoio di casa Baggio a Coldogno, Roberto aveva il tocco dei grandissimi. Nelle giovanili, faceva squadra da solo e segnava con incredibile facilità. Da qui il soprannome, «Zico», e l’interessamento del Vicenza che lo acquista a 14 anni, e della Fiorentina, che lo vuole quando ha appena 18 anni. 

Ma Baggio, oltre che il genio, dei campioni ha anche la sfortuna. Nell’ultima partita disputata con il Vicenza, nella primavera dell’85, si rompe il ginocchio destro. La rieducazione è estremamente laboriosa. Da qui, due anni di inattività, i medici che gli consigliano di smettere, la società fiorentina che lo aspetta, il pubblico toscano che lo adotta ancora prima di vederlo in campo. Baggio, che proprio in questa fase drammatica incontra il Buddhismo – che, dice lui, gli ha salvato la vita – torna in campo, incanta. Inizia una carriera raminga, fatta di grandi amori e dolorosi disamori (nessuno, in Italia, ha diviso nel calcio come lui) e vissuta sempre con una gamba e mezza, perché quel ginocchio destro lo condizionerà per tutta la vita. 

Nel ’90, dopo cinque anni indimenticabili a Firenze, arriva il distacco traumatico – e non voluto – dalla città toscana per approdare alla «nemica» Juventus di Agnelli, dove resterà cinque anni. Costellati, ancora una volta, di soddisfazioni ma anche di incomprensioni, di Palloni d’oro (terzo calciatore italiano dopo Rivera e Paolo Rossi) e di fratture con quei tifosi che gli rinfacciano il passato. 

Sono gli anni in cui la Nazionale è la sua Nazionale; gli anni di USA ’94, di una finale di Mondiale raggiunta quasi da solo, del rigore sbagliato a Pasadena che costituisce il dolore indelebile, mai metabolizzato, del Baggio calciatore.

Dopo aver abbandonato in malomodo la Juve (è la nuova dirigenza di Bettega, Moggi e Giraudo a non volerlo) e Torino, Baggio sceglie prima il Milan (’95-97), poi il Bologna (‘97-98), quindi l’Inter (‘98-2000) e il Brescia (2000-2002). Lo danno finito un migliaio di volte, ma lui c’è sempre, come dimostra nell’anno bolognese, riconquistando, contro i pronostici di tutti, la Nazionale e quindi il Mondiale, a 31 anni. Dove Maldini, inspiegabilmente, gli preferisce spesso Del Piero. A detta della critica più avveduta, questo costa, probabilmente, il titolo mondiale all’Italia.

Nel libro, Baggio parla diffusamente della sua carriera, rispondendo alle tante critiche che lo hanno accompagnato, e raccontando con lucidità il difficile rapporto con gli allenatori che più si sono opposti al suo talento (e alla sua fama): Sacchi, Ulivieri e soprattutto Lippi. Si commuove parlando di Daisaku Ikeda, il maestro della Soka Gakkai, la scuola buddhista giapponese a cui aderisce da 13 anni. Confida la fascinazione per la pampa argentina, dove si rifugia tutte le estati; si diverte raccontando i mille scherzi fatti agli amici; si infervora nel parlare dell’amore irresistibile per la caccia, vissuta come azione privilegiata per riconquistare quella che Hemingway chiamava relazione intima con il mondo.

Ne nasce un ritratto inedito di un campione che, probabilmente, il pubblico non ha mai conosciuto fino in fondo. Quello di un uomo maturo e introverso, che si rifugia nella natura quando deve staccare la spina, che sta ore e ore ad osservare il volo degli uccelli, che si innamora dell’alba, che per la famiglia e gli affetti ha fatto e farebbe tutto. Che è capace di dare tutto se stesso, di donarsi, che ha relazioni umane intime e profonde. Che ha ancora dei sogni, e vuole realizzarli, con la determinazione di sempre.

Quella determinazione che, oltre ad avergli consentito di contribuire alla salvezza del Brescia, potrebbe condurlo al Mondiale del 2002. Disputato, peraltro, in un Paese a lui carissimo: il Giappone. Sarebbe l’ennesimo dribbling di una vita così ricca di eventi da non aver bisogno di aggiunte romanzesche per apparire in qualche modo epica.

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