venerdì 1 aprile 2011

Storia della Tattica: La nascita e la scomparsa del Libero [Prima Parte]


La storia del calcio non è fatta solo di grandi campioni: sin dagli albori, è sempre stata caratterizzata da una continua ricerca verso la perfezione tattica. E’ dal 24 ottobre 1857, data di nascita ufficiale del Calcio Moderno in cui 
il pioniere Nathaniel Creswick fondò la prima squadra della storia
(Sheffield FC), che allenatori di polverosi campetti di periferia insieme
a top-manager sulla tolda dei club più ricchi del pianeta si interrogano quotidianamente, nel tentativo di rispondere a due semplicissime domande: 

1. qual è il modo migliore per “coprire” il rettangolo verde? 
2. Qual è la chiave più adatta per riuscire ad infilare il pallone
in fondo alla rete avversaria,
cercando allo stesso tempo di mantenere inviolata la propria?


In questa ormai più che secolare “ricerca del Santo Graal”,
l’evoluzione del gioco è stata lenta ma inesorabile,
un processo ininterrotto che ha scalfito certezze ormai consolidate
e regalato spunti di discussione sempre più complessi.



Le origini

Sembrano ormai preistoria sportiva i primi schieramenti “a piramide” adottati dai pionieri britannici di Cambridge (per questo il modulo, un arcaico 2-3-5, prese il nome di “Cambridge Pyramid”), in cui fu abbozzata per la prima volta un’organizzazione schematica delle posizioni in campo degli 11 “footballers”, sino ad allora impegnati in un caotico e frenetico
kick and run allo stato brado, senza strategie particolari.
Furono i Blackburn Rovers di Thomas Mitchell a porre fine all’anarchia vigente, precisamente nel 1884: questa storica innovazione li portò a vincere ben 5 Coppe d’Inghilterra, e sancì la nascita del primo modello di tattica applicata al calcio. L’eco di quei successi si sparse in tutto il mondo, arrivando addirittura in Sudamerica, dove la piramide fece scuola e permise il dominio quasi totale delle due nazionali platensi, Uruguay e Argentina, autentiche mattatrici del calcio internazionale negli anni ’20 e ’30
(non a caso, furono anche le prime finaliste in assoluto dei Campionati Mondiali nel 1930 a Montevideo: 4-2 per i padroni di casa, sulla cui panchina sedeva l'allora trentaduenne Alberto Horacio Suppici).

Anche in Italia il Genoa usufruì di questo modulo, vincendo ben 6 scudetti durante i primi campionati italiani tra il 1898 e il 1904 (sfuggì solo il titolo 
del 1901, vinto dal Milan di Herbert Kilpin) guidato dal coach/player James Spensley, che era sbarcato nel porto ligure come… medico di bordo!

Dopo la Prima Guerra Mondiale, in Europa la piramide dovette cedere il passo di fronte al simultaneo avvento del Metodo e del Sistema. L’origine di questi due nuovi schieramenti è rintracciabile nel 1926, a causa della modifica della regola del fuorigioco voluta dall’IFAB (il numero di giocatori che tenevano 
in gioco un attaccante passò da tre a due) che rese impraticabile l’utilizzo
del 2-3-5, troppo sbilanciato specie nelle retrovie (dove c’erano i due “terzini” = “della terza linea”, quella difensiva appunto, mentre adesso nell'accezione comune sono i 2 laterali destro e sinistro che affiancano i centrali nella difesa 
a quattro del calcio moderno...).

La prima modifica alla piramide fu chiamata Metodo (2-3-2-3, detto anche WW per la disposizione dei giocatori in campo vista dall’alto), e fu varata dai leggendari
Vittorio Pozzo e Hugo Meisl, amici fuori 
e acerrimi nemici sul rettangolo di gioco. 
Il torinese affidò ai due terzini il compito di coprire centralmente, dividendosi diligentemente i compiti: uno, quello "di volata", marcava 
a uomo il centrattacco avversario, francobollandosi alle sue spalle e mordendogli le caviglie; l’altro, quello "di posizione", presidiava l'area di rigore e doveva sempre farsi trovare pronto per aiutare il compagno marcatore in caso di difficoltà. In questo contesto, potremmo definire il terzino di posizione del Metodo come una sorta di libero ante litteram.
Il resto della fase difensiva era affidato ai mediani laterali, che avevano il compito di seguire le ali avversarie, mentre in mezzo a loro e davanti ai due terzini c’era il centromediano metodista, che fungeva da punto di riferimento per i difensori e allo stesso tempo si accollava l’onere dell’organizzazione del gioco (esempio perfetto: Rosetta e Caligaris a proteggere il portiere Combi, con Luisito Monti “centrosostegno” davanti a loro sulla linea dei centrocampisti nell'Italia campione del mondo 1934 e nella Juventus pluri-scudettata dell’epoca). Grazie ai due attaccanti interni (“inside forwards”, per dirla all’inglese), si creava di fatto una densità a centrocampo che permetteva una costante superiorità numerica, aspettando gli avversari nella propria metà campo per poi castigarli con contropiede fulminanti.

Col “Metodo”, Vittorio Pozzo vinse due Mondiali consecutivi (1934 e 1938, unico allenatore nella storia a riuscire nell’impresa, sconfiggendo nella semifinale del ’34 proprio la formidabile Austria di Meisl), due Coppe Internazionali (1930, 1935) e la medaglia d’oro alle Olimpiadi di Berlino 1936, mentre a livello di club la tattica fu utilizzata dal Bologna “che tremare il mondo fa” vincitore di 6 scudetti negli anni ’20 e ’30 e due Coppe dell’Europa Centrale (1932, 1934) sotto la guida tecnica dell’austriaco Hermann Felsner, e degli ungheresi Gyula Lelovics e Árpád Weisz, e dalla Juventus dei 5 scudetti consecutivi nel “quinquennio d’oro 1931-1935” di Carlo Carcano (4 titoli per lui e vice di Pozzo nei Mondiali del ’34) e il sostituto Carlo Bigatto.


Sotto la guida di Hugo Meisl, la nazionale austriaca si guadagnò
il soprannome di Wunderteam (squadra delle meraviglie). 

Lo stile di gioco di quella compagine era basato su una riuscita commistione tra le peculiarità del calcio danubiano e la “scuola scozzese”, incentrata su veloci passaggi e un continuo scambio di posizioni in campo, introdotta dal vice-allenatore inglese Jimmy Hogan. Infatti, l’allenatore austriaco si proponeva di creare una sintesi tra il “Metodo” con la sua compattezza difensiva affidata ai contropiede e il più spregiudicato “Sistema” che in quegli anni spopolava in Gran Bretagna.

Quest’ultimo era stato inventato dall’allenatore dell’Arsenal (dal 1925 al 1934, anno della sua morte) Herbert Chapman, allo scopo di creare un’alternativa più offensiva al “Metodo” che si stava sviluppando parallelamente in Italia e nell’Europa Centrale; questa disparità di vedute, piuttosto netta, la potremmo definire la prima vera disputa tattica della storia del calcio, un’autentica “battaglia omerica” che divideva fautori ed oppositori in due tronconi ben precisi. Proprio per questo il tentativo di sintesi di Meisl fu così rivoluzionario all’epoca.
Il coach britannico accolse con vivo interesse l’apparentemente banale suggerimento del suo difensore Charlie Buchan: perché non far retrocedere il centromediano in posizione difensiva per far fronte alla superiorità numerica in attacco che la nuova regola del fuorigioco favoriva? In questa maniera i due terzini vennero spostati sulle fasce ad occuparsi della ali avversarie mentre il centromediano passò dal centrocampo alla difesa e gli furono assegnati compiti di marcatura sul centravanti avversario: era nato lo stopper, e soprattutto era pronto l’antenato “ufficiale” del tanto moderno (?) 3-4-3, un 3-2-2-3 che in campo assumeva la forma di una WM dall’alto. In attacco, i due “inside forwards” (che nella piramide giocavano affiancati ai tre attaccanti e nel “Modulo” avevano il compito di scompaginare gli equilibri difensivi avversari) divennero degli autentici rifinitori, pronti ad ispirare i finalizzatori d’area di rigore.
In seguito e dopo un’iniziale reticenza, anche in Italia il Grande Torino si “convertì” al WM nel suo dominio incontrastato del campionato nazionale (allora non c’erano Champions League e simili, altrimenti…), inaugurando una moda che prese piede dopo la Seconda Guerra Mondiale.


Dopo essersi imposto sulla scena inglese collezionando trofei con l’Huddersfield Town negli anni Venti
(3 Campionati – 1 Coppa d’Inghilterra – 1 Charity Shield),
nei primissimi anni Trenta Chapman portò l’Arsenal alle prime vittorie in assoluto della sua storia, creando i presupposti tuttora validi che vedono i “Gunners” tra le principali squadre della Gran Bretagna e d’Europa.

Negli stessi anni, l'undici austriaco di Meisl
stava inanellando un’impressionante serie di 14 risultati utili consecutivi,
tra l'aprile del 1931 e il dicembre 1932.

Questa "filotto" vincente permise all'Austria di vincere la seconda edizione della Coppa Internazionale (secondo posto per l'Italia campione uscente), considerata l'antenata dei moderni Europei.
Il Wunderteam si presentò ai Mondiali del 1934, disputati in Italia, come una delle nazionali favorite. Negli ottavi di finale la formazione austriaca sconfisse la Francia per 3-2 (dopo i tempi supplementari), mentre nei quarti ebbe la meglio sull'Ungheria di Sárosi per 2-1. In semifinale però l’Austria dovette cedere 1-0 al Comunale di San Siro agli Azzurri padroni di casa (gol molto discusso convalidato dallo svedese Ivan Eklind – un’Italia perdente in pieno regime fascista era francamente impensabile…- dell’oriundo ala sinistra Guaita), 
che si laurearono in seguito campioni del mondo. L'atteggiamento del fischietto scandinavo fu talmente gradito dalla Federazione Italiana e soprattutto da Mussolini che, incredibilmente, fu designato anche per arbitrare la finale con la Cecoslovacchia! (caso unico nella storia dei Mondiali).
La finale per il 3° posto all'Ascarelli di Napoli venne vinta dalla Germania con il punteggio di 3-2, ed anche in questo caso l’arbitraggio dell'italiano Carraro, particolarmente accomodante verso le entratacce spacca-caviglie
degli “amici tedeschi”, fu molto discusso dai cronisti dell’epoca…
Alle Olimpiadi del 1936 a Berlino, il Wunderteam conquistò la medaglia d’argento, perdendo ancora una volta contro l'Italia (2-1 dts, doppietta di Annibale Frossi, il “Dottor Sottile” che anche in campo indossava gli occhiali a causa di una forte miopia): gli Azzurri furono l’autentica bestia nera dei danubiani, e questo acuiva maggiormente la già crescente rivalità tra Hugo Meisl e Vittorio Pozzo. Per arrivare in finale gli austriaci sconfissero l'Egitto (3-1), il Perù (si ritirò dalla competizione poiché si rifiuto di rigiocare la partita -vinta 4-2 dts - dopo l'invasione di alcuni tifosi sudamericani che costrinse la FIFA ad annullare il risultato) e la Polonia
(3-1); ogni vittoria degli austriaci era uno schiaffo al Führer e alla sua ridicola pletora di cortigiani, che guardavano all’Austria come ad un fastidioso insetto da schiacciare ed inglobare nella “Grande Germania”, come avvenne purtroppo di lì a pochi anni. La morte di Hugo Meisl nel 1937 segnò la fine 
del Wunderteam, e coincise con l’inizio di un’epoca di terrore nel Paese danubiano, e non certo per motivi calcistici... Infatti l'Austria si qualificò senza problemi per i Mondiali del 1938 in Francia, ma si ritirò in seguito all'Anschluss (annessione incondizionata al Terzo Reich nazista) del 12 marzo 1938. Molti giocatori austriaci vennero "persuasi" forzatamente a giocare con la maglia tedesca, ma la squadra mista deluse le attese e non superò gli ottavi di finale; dopo un primo pareggio per 1-1, nella ripetizione del match la Svizzera di Karl Rappan (austriaco nativo di Vienna, ironia della sorte) si impose 4-2 al Parco dei Principi, rimontando lo 0-2 dei primi 22 minuti – ed è qui che comincia un altro capitolo: sta nascendo un nuovo ruolo nel calcio, 
il “Libero”…

E venne il "Libero"...

C’è un equivoco di fondo, piuttosto fuorviante, che spinge alcuni commentatori dei giorni nostri a definire “catenaccio” l’atteggiamento eccessivamente difensivo (sparagnino?...) di alcune squadre di questi anni: si è parlato di “catenaccio di Mourinho” sia al Chelsea che all’Inter pluri-decorata della stagione 2009/2010; si è definito “catenaccio alla spagnola”
il Liverpool di Rafa Benìtez vincitore della Champions League 2004/2005 nella folle finale di Istanbul (dallo 0-3 al 3-3 e successivo trionfo ai rigori); 
si è detto che Otto Rehhagel abbia compiuto un “miracolo sportivo” (paragonabile, forse, al “miracolo di Berna” con cui la Germania 1954 si laureò campione del mondo sconfiggendo incredibilmente l'Arancysapat, ossia l’Ungheria di Ferenc Puskás, Sándor Kocsis, József Bozsik, Nándor Hidegkuti, Zoltán Czibor, una pletora di fuoriclasse irripetibili guidati dallo straordinario innovatore Gusztáv Sebes) vincendo gli Europei 2004 con la non quotatissima Grecia in Portogallo, e così via. E certo Fabio Capello è spesso stato accusato di badare un po’ troppo alla sostanza, e di proporre un gioco eccessivamente speculativo e prudente (indicative, in tal senso, le clamorose contestazioni dei tifosi del Real Madrid nella stagione 2006/2007, dove con tanto di caratteristiche pañoladas si contestava l’operato dell’allenatore friulano nonostante la vittoria del campionato dopo tre anni di digiuno).

Interessante questo dato per due motivi:
 1. lo scarso spettacolo del calcio moderno è anche frutto
di un tatticismo esasperato ed attendista,
salvo sporadiche e salvifiche eccezioni;
 2. in passato il tanto nominato "CATENACCIO"
era semplicemente un modo per definire l'istituzione fissa
del ruolo del libero staccato dietro gli altri 3 difensori.

Già, ma chi è stato il primo a “staccare” quel giocatore dietro la linea difensiva come ultimo baluardo a protezione del portiere? Una genealogia precisa del ruolo può apparire complicata dal fatto che l’accezione comune, soprattutto all’estero, ha sempre etichettato il “Catenaccio” come un’invenzione tipicamente figlia della mentalità attendista italiana, in chiave quasi sempre spregiativa, ma in realtà in principio fu…
la Svizzera, tramite l’Austria per giunta!
Infatti, l’inventore del famigerato catenaccio può essere definito l’austriaco Karl Rappan, che propose per la prima volta questa soluzione già nel 1932 quando rivestiva il ruolo di giocatore (centrocampista… offensivo, ironia della sorte!)/allenatore al Servette.
La modifica apportata al Sistema WM può apparire quasi banale, ma in realtà sancì un netto cambio d’atteggiamento dal propositivo modulo di gioco d’ispirazione britannica alla ben più accorta strategia elvetica: in pratica, Rappan decise di far scalare un mediano del 3-2-2-3 dietro la linea bloccata dei 3 difensori, esentandolo da qualsiasi compito di marcatura individuale sull’avversario. Nasceva così il “libero”, che interveniva in seconda battuta sugli avversari che erano riusciti a dribblare il marcatore diretto, ed allo stesso tempo aveva il compito di comandare la difesa e i movimenti del portiere, fungendo anche da “allenatore in campo” in fase di non possesso palla, quando indicava ai propri compagni le consegne tattiche dell’head-coach. Tale innovazione fu resa possibile diversificando le mansioni di alcuni ruoli: il terzino “di posizione” restava davanti al portiere col compito di “spazzino d’area”, mentre quello “volante”, anziché applicarsi a una zona, 
si dedicava al centravanti avversario, così consentendo al centromediano di organizzare il gioco davanti alla difesa, in collaborazione con una delle due mezzali, sottratta al gioco d’attacco, mentre l’ala continuava a parteciparvi, ma in veste diremmo oggi di trequartista, cioè di suggeritore alle spalle delle tre punte, le due laterali ed il riferimento centrale. Solo negli anni successivi, 
in particolare dagli anni Cinquanta e Sessanta, il “battitore libero” divenne anche il primo ad impostare la manovra delle squadre che lo utilizzavano, affinando la tecnica individuale e ricorrendo costantemente ai lanci lunghi.

Karl Rappan al Servette pose le basi tattiche che permisero al club di Ginevra di mettere in bacheca due titoli nazionali consecutivi, prima di appendere gli scarpini al chiodo nel 1935 ed assumere la guida tecnica del Grasshopper, dove vinse 5 titoli nazionali (1936-1937, 1938-1939, 1941-1942, 1942-1943, 1944-1945) e ben 7 Coppe di Svizzera tra il 1937 e il 1946. Negli anni Cinquanta tornò in varie riprese ad allenare il Servette, regalando ai granata un altro titolo nazionale nel 1949/50 e la Coppa di Svizzera 1948/49.

Il coach nativo di Vienna ripropose una versione molto simile nel
Mondiale 1938 in Francia, alla guida della Svizzera: fu definito VERROU (o 'Riegel', in tedesco) cioè, appunto, "catenaccio", e la modesta nazionale rossocrociata ben figurò nel torneo, eliminando la Germania
(e spezzando sul nascere il patetico orgoglio nazista: dopo l'1-1 iniziale, nel match di ripetizione gli alpini dilagarono 4-2 dopo esser stati sotto 0-2 nei primi 22’ e continuando inspiegabilmente a difendersi, lasciando il pallino del gioco ai tedeschi... ma con il passare dei minuti le energie teutoniche diminuirono, e le fulminee ripartenze svizzere fecero più danni della grandine, in una difesa ormai dalle gambe molli che niente poté per evitare i 4 gol subiti tra il 42’ e il 78’), al primo turno ed arrampicandosi fino ai quarti di finale, nei quali cedette 0-2 alla fortissima Ungheria di György Sárosi e Gyula Zsengellér, futura finalista a Colombes contro l’Italia (4-2 per gli Azzurri di Pozzo).


In quella squadra sorprendente, il portiere Willy Huber poteva contare sulla copertura dei due mediani laterali Hermann Springer ed Ernst Loertscher, guardinghi e bloccati sulle ali avversarie. Inoltre, i due terzini metodisti si posizionavano come di consueto l'uno dietro all'altro, ma solo il più arretrato Severino Minelli (capitano) si poneva come estremo spazza-tutto, "libero" dai compiti di marcatura, mentre August Lehmann prendeva in consegna il centravanti avversario. Il centromediano Sirio Vernati era addetto alla costruzione della manovra dalle retrovie, coadiuvato dalla mezzala destra Eugen Walachek e dall'interno André 'Trello' Abegglen, l'elemento tecnicamente più raffinato della compagine: con 29 gol in 52 gare in Nazionale, è al quarto posto nella classifica dei marcatori più prolifici di tutti 
i tempi. Nella trequarti avanzata, le due ali Lauro Amadò ed il tignoso
Georges Aeby supportavano il centrattacco Fredy Bickel.
In sostanza, questo modulo contemplava quattro uomini dediti alla fase offensiva, e ben sei giocatori a quella difensiva. Una piccola ma significativa correzione rispetto al Metodo classico, che invece assegnava un numero uguale di uomini alle due linee: cinque per la difesa e cinque per l’attacco.


L’allenatore viennese riuscì a guidare la Svizzera in ben 3 Mondiali (Francia 1938 appunto, poi il torneo casalingo nel 1954 e la sfortunata avventura in Cile del 1962), ma non fu un innovatore solo sul rettangolo verde: tra le altre attività, nel 1961 ideò una versione “progenitrice” della Coppa Intertoto insieme allo svizzero Ernst Thommen, che prese proprio il nome di Coppa Piano Karl Rappan. C’era l’ambizione di creare una sorta di lega europea, ma in realtà la competizione divenne un supporto per le agenzie di scommesse sportive (da questo motivo derivò in seguito il nome della futura Coppa Intertoto), specialmente per l'Europa dell'Est. La prima edizione la vinse l'Ajax. La manifestazione rimase nell'anonimato per molti anni finché, nel 1995, l'UEFA decise di inserirla tra i propri tornei, trasformandola in una competizione d'accesso alla Coppa UEFA con il nome di Coppa Intertoto.


Ma il Sistema che fine aveva fatto? Gli ultimi fuochi si ebbero con le edizioni della Coppa del Mondo degli Anni Cinquanta, quando l’Uruguay si rivelò l’unica compagine del Sudamerica a convertirsi alla ‘scuola britannica’ 
per cercare di scrollarsi di dosso i critici e deludenti anni ’40, proprio mentre Brasile e Argentina continuavano a ritenere indegno marcare a uomo gli avanti avversari, virando decisamente sul 4-2-4 di scuola ungherese
(ideato dal magiaro Márton Bukovi al MTK Budapest nel 1947, esportato nel subcontinente dal connazionale Bela Guttmann São Paulo Futebol Clube e al Quilmes Atlético Club, poi perfezionato da Vicente Feola nel 1958 e da Gusztáv Sebes con l’Aranycsapat). I verdeoro pagarono a caro prezzo la loro atavica supponenza, nonostante il prezioso contributo del terzino Augusto 
in fase di interdizione, per coprire le scorribande offensive del fluidificante Juvenal. Nello schieramento proposto nel Mondiale casalingo del 1950 
dal CT Flavio Costa, la celeberrima “Diagonal”, il concetto era di avere sei giocatori offensivi in fase di possesso-palla e sei difensivi quando la sfera passava agli avversari: i due cardini erano i mediani dai gran polmoni Danilo e Bigode, che si aggiungevano a seconda della fase di gioco o ai quattro difensori o ai quattro attaccanti. Bauer fungeva da centromediano metodista per equilibrare il costante incedere delle ali Friaça e Chico, abili a rifornire 
il centravanti Ademir, alle cui spalle c’erano le mezz’ali Zizinho (“O divino mestre”) e Jair da Rosa sul centro-sinistra. Questo poderoso armamentario tattico crollò miseramente sotto i colpi della ‘Celeste’ di Schiaffino e Ghiggia, ineluttabili giustizieri al servizio dell’ultima squadra nella storia ad aver alzato al cielo la Coppa del Mondo utilizzando un "ibrido tattico" tra il Sistema 
e il Metodo, l’Uruguay di coach Juan López Fontana appunto. Davanti 
al portiere Roque Máspoli, il terzino destro Matías González era “libero” da compiti di marcatura, pronto ad assistere l’altro terzino "volante", il mancino Eusebio Tejera, e i due mediani Schubert Gambetta e Víctor Rodríguez Andrade, che agivano più larghi per contrastare le ali avversarie. Capitan Obdulio Varela era il centromediano, fulcro dell’intera manovra sia in fase 
di contenimento che di rilancio, mentre la mezzala destra Julio Pérez fungeva 
da supporto; la fase offensiva era affidata quasi esclusivamente al raffinato interno sinistro che fece le fortune di Peñarol e Milan tra il 1945 ed il 1960 
ed ai guizzanti Ghiggia ed 'El Patrullero' Ernesto Vidal (sostituito nell’ultima partita dall'ancor diciannovenne Rubén Morán), posti ai lati de 'El Cotorra' Óscar Míguez. Era una mosca bianca, rispetto al Sistema imperante, quella Celeste ancora schierata nominalmente secondo il Metodo, ma vinse...

Otto anni dopo, l’allenatore britannico George Raynor (che durante la Guerra aveva allenato… l’Iraq!) provò a ripetere il miracolo, impostando la sua Svezia in maniera simile, con lo stopper Gustavsson che si avvaleva sui suoi fianchi dei due terzini Bergmark e Axbom, Parling e Liedholm a menar le danze dietro le mezz’ali Börjesson e Gren, con Kurt Hamrin e Lennart 'Nacka' Skoglund ai lati del centravanti Agne Simonsson; ma ormai la Seleção aveva imparato bene la lezione, e cauterizzò in parte quell’orrenda cicatrice del Maracanazo” grazie alla leggendaria filastrocca Gilmar-DjalmaSantos-NiltonSantos-Orlando-Bellini-Zito-Garrincha-Didì-Vavà-Pelé-Zagallo, alzando finalmente nel terso cielo scandinavo la tanto sospirata Coppa Rimet…

Ad ogni modo, il catenaccio elvetico cominciò ad essere adottato progressivamente nel resto del Continente;
e in Italia, la famigerata patria del calcio difensivo?
Pare che già nel campionato 1937-38 l’allenatore
Adolfo Baloncieri (in passato grande mezz’ala offensiva e prototipo del regista “classico” della nostra Nazionale, 6° cannoniere assoluto nella storia degli Azzurri, insieme a Filippo Inzaghi e Alessandro Altobelli,
con 25 gol in 47 presenze), reduce dalla sfortunata retrocessione col Novara l’anno prima, avesse avuto un’idea del genere guidando il Liguria.
Proprio in quell’anno, una disposizione del Regime Fascista impose di ritornare alla vecchia denominazione, che era stata sostituita nel 1931 dal nome Sampierdarenese, anche se i colori sociali rimasero gli stessi, ossia la storica maglia bianca con una striscia nera ed un’altra rossa sul petto e calzoncini scuri introdotta nel lontano 1920.
Ad ogni modo, il nuovo allenatore riuscì ad ottenere un ottimo 11° posto in classifica, arretrando a turno davanti al portiere Venturini i mediani
Gino Callegari (l’ “anarchico” patavino che in campo non stringeva la mano a Benito Mussolini nei pre-gara) e Mario Malatesta per coadiuvare il lavoro dei terzini Persia e Borelli (o Simontacchi), garantendo maggior equilibrio alla propria squadra senza però pregiudicare la prolificità di Luciano Peretti,
l’ “opportunista tascabile” che in quella stagione riuscì a siglare 11 reti: memorabile il suo gol al 19’ del derby di ritorno disputato al Luigi Ferraris
il 20 febbraio 1938 in casa del Genoa, bissato al 77’ da “U Testina”
Angelo Bollano e che sancì la prima storica sconfitta assoluta del Genoa nelle stracittadine in Serie A.

Le cose andarono ancor meglio nella stagione successiva: l'inedita coppia formata da Liguria e Bologna colse di sorpresa l’intera Penisola, con i genovesi che mantennero la vetta della classifica fino al 22 gennaio 1939 e si laurearono campioni d'inverno in coabitazione con i petroniani. Questi ultimi, perso ad ottobre il succitato allenatore ebreo Árpád Weisz, a causa delle vergognose leggi razziali (morì in un lager nazista, come raccontato tragicamente dallo splendido libro “Dallo scudetto ad Auschwitz" del giornalista Matteo Marani), richiamarono sulla panchina l'allenatore degli anni Venti Hermann Felsner, che portò avanti molto bene il lavoro dello sfortunato predecessore prima vincendo il girone d'andata alla pari con i liguri, e poi dando il via ad una travolgente cavalcata che portò il Bologna a festeggiare il suo quinto scudetto il 21 maggio, dopo la vittoria per 4-0 sul Napoli, trascinati dalle 19 reti del capocannoniere (ex-aequo col milanista Aldo Boffi) italo-uruguagio
Ettore Puricelli. Il Liguria rallentò progressivamente il ritmo nella seconda parte della stagione, chiudendo al sesto posto (31 punti come il Napoli 
e la Roma, quinta in virtù del quoziente-reti migliore).

Apolide nativo di Cìfer (Ungheria), il tecnico
József Bánás (che da giocatore, centromediano, era stato il primo straniero acquistato dal Milan negli anni ’20 dopo la riapertura delle frontiere) negli anni Trenta pose le basi per un sistema di gioco difensivo analogo che esplose nel calcio dell’immediato dopoguerra.
Costretto al ritiro da un brutto infortunio al ginocchio (campionato 1925-26, Milan-Alessandria 2-2), fu richiamato in Italia dalla società rossonera come trainer dopo la parentesi nel 1930-31 alla Cremonese (6° in Serie B). Dopo un buon quinto posto nella Serie A 1931-32, la stagione seguente non fu così fortunata, tanto da regalare un’anonima undicesima posizione in classifica nonostante le
19 realizzazioni del centravanti Mario Romani: Bánás ebbe comunque il merito di assicurare al campionato italiano il suo personalissimo contributo, sia dal punto di vista tattico sia da quello atletico, sperimentando un innovativo sistema di preparazione fisica che fece scuola all’epoca.
Nella Serie B 1941-42, alla guida del Padova, il saggio Jozsef era solito arretrare Ubaldo 'Gocciolino' Passalacqua alle spalle della terza linea, inventandosi una sorta di 'terzino/libero' , ossia il quarto difensore capace 
di far recedere il baricentro della squadra a seconda della fasi di gioco. L'innovazione vide la luce il 16 ottobre 1941, in occasione di una trasferta ad Udine. Il giornalista Mario Grassi (“Il Piccolo”) annotò “una novità di rilievo in tema di tattica ha fatto vedere il Padova allenato da Banas schierando quattro attaccanti,due rincalzi, tre mediani e un terzino. Una trovata molto indovinata, specie quando si hanno a disposizione gli uomini giusti. Il Padova ha in Passalacqua il terzino volante capace di essere presente dovunque per tamponare una falla”. Un mese dopo la Triestina (allenatore Mario Villini) presentava similmente un Angelo Scapin “terzino volante” di destra. Sulla falsariga del Padova e dei giuliani, anche i Vigili del Fuoco di La Spezia allenati da Ottavio Barbieri nel Campionato di Guerra del 1944 colsero una incredibile vittoria finale ai danni del Torino-Fiat, sfruttando sia la stanchezza dei rivali, di ritorno dalla partita contro la rappresentativa del Venezia-Giulia nel Nord-Est, sia una disposizione tattica particolarmente accorta, atta a bloccare le temutissime bocche da fuoco avversarie. Il modulo di gioco utilizzato dall’ex-vice di Garbutt sulla panchina del Genoa era sempre una commistione tra Sistema e Metodo: dal primo, mutuava le marcature fisse e l’impalcatura del centrocampo retto dai due mediani; dal secondo, prendeva 
la disposizione in campo degli interpreti. Questa sorta di "Mezzo Sistema"
fu adoperato anche dal Modena 1946-47, guidato in panchina da Alfredo Mazzoni, con Braglia terzino-metodista alle spalle dei tre difensori canonici, ed in generale divenne una strada molto battuta dalle provinciali, nel tentativo di sopperire alle inevitabili lacune tecniche dei calciatori a disposizione.
Più tardi, mentre il succitato Annibale Frossi imitò il catenaccio dello svizzero Rappan, l'Inter di Alfredo Foni sdoganò questa tipologia di gioco 
e vinse due scudetti consecutivi (1952-53 e 1953-54), ignorando allegramente le critiche sulla scarsa qualità estetica della manovra; fu una rivoluzione copernicana, giacché l'obiettivo non era più limitare i danni al cospetto 
di compagini più attrezzate, ma vincere in una grande squadra giocando 
"da provinciale". I Nerazzurri destarono scandalo con il loro "Chiavistello"
un modulo in cui davanti al portiere Ghezzi fu utilizzato il terzino destro 
di posizione Ivano Blason da “battitore libero”, in marcatura lo stopper Giovannini si occupava del centravanti mentre le ali avversarie venivano limitate dal terzino sinistro Giacomazzi e dall'ala tornante Armano, che si sobbarcò il duplice compito di offendere (in coabitazione con l'altro laterale, 
il succitato Skoglund), per rifornire gli avanti Lorenzi e Nyers, e di rinculare 
in copertura, coadiuvando il lavoro sporco dei mediani Neri e Nesti, a loro volta assistiti dalle lineari geometrie del disciplinato regista Bruno Mazza, 
per il quale Foni aveva rinunciato al più talentuoso olandese Faas Wilkes.
Ad ogni modo, il precursore Bánás ebbe una lunga e decorosa carriera da allenatore, che si dipanò nei successivi trent’anni (ultima stagione: 1960-61,
3° posto nel Girone F della Serie D con i siciliani dell’Acireale) su e giù per lo Stivale tra Venezia, Padova, Brescia, Pescara e Catania, tornando in altre tre parentesi (1933-35, 1945-46 e dal 1948 al 1951) alla Cremonese e allenando futuri protagonisti dei nostri campi come Ezio Loik, Nereo Rocco,
Giovanni Trapattoni e Sandro Salvadore.

Tuttavia, il primo a sperimentare concretamente qualcosa di speculare all’innovazione proposta da Karl Rappan fu Giuseppe "Gipo" Viani, il quale guidava la Salernitana al suo primo anno nella storia in Serie A, nel 1947-48.
Il sanguigno allenatore veneto ideò un sistema di gioco all’epoca rivoluzionario, che metteva in difficoltà le squadre avversarie: mise sulle spalle di Alberto Piccinini (proprio lui, il centrocampista futuro nazionale e padre del Sandro attuale giornalista televisivo) la maglia numero 9, schierandolo in realtà in marcatura sul centravanti avversario e arretrando alle spalle della terza linea il difensore toscano Ivo Buzzegoli, impiegato appunto come ruvido, ultimo baluardo davanti al portiere. La manovra offensiva, che di fatto risultava sprovvista di un centrattacco “classico”, si sviluppava quasi esclusivamente sulle fasce laterali, grazie alle invenzioni dell’ala sinistra Antonio “Totonno” Valese, il capitano soprannominato “il balilla salernitano” per i movimenti in campo 
che ricordavano quelli del grande Giuseppe Meazza.

Quel modulo prese il nome di VIANEMA e in quegli anni l’illustre giornalista Gianni Brera coniò per il ruolo del battitore il nome di “libero”, più tardi ripreso in tutto il mondo (in Spagna ancor oggi si dice “juga de libero”).
Quella Salernitana non riuscì ad evitare il quart’ultimo posto e la conseguente retrocessione in Serie B, ma intanto Gipo Viani (che subito andò alla Lucchese, e poi Palermo, Roma, Bologna e quindi al Milan) passò alla storia, prima ancora di vincere i due scudetti con i rossoneri nel 1956-57
e nel 1958-59 e di condurli alla sfortunata finale di Coppa Campioni del 1958, persa ai supplementari 2-3 contro il Grande Real.
Allenò anche per una breve parentesi la Nazionale Italiana nel 1960, prima di tornare a guidare squadre come Genoa e Bologna e chiudere la propria carriera sulla panchina dell’Udinese per diventare Direttore Sportivo al Milan, sfruttando la sua incredibile competenza.

Marco Oliva per FUTBOLANDIA DREAMIN'

2 commenti:

  1. JuRo:

    pezzo splendido, complimenti vivissimi.
    Si potrebbe trattare anche altri ruoli ormai
    in disuso, tipo le ali d'attacco pure,
    e magari analizzare i cambiamenti ed i ritorni
    di altri, come quello del Centromediano
    Metodista, figura sempre più comune

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  2. Gipo Viani andrebbe ricordato più spesso:
    ha fatto la storia con la mia gloriosa
    Salernitana! Grazie per averlo citato

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